Le nostre recensioni

"Phallus Dei" di Giordano Tedoldi - recensione di Sergio Oricci

Phallus Dei, di Giordano Tedoldi (Corrimano Edizioni, 2024)

Se volessimo trovare un autore in Italia che più di ogni altro, con il suo percorso, può essere esemplificativo dell’andamento della nostra industria editoriale, quell’autore sarebbe Giordano Tedoldi. Nato a Roma nel 1971, esordisce con la raccolta di racconti Io odio John Updike (Fazi, 2006, poi riproposta da Minimum Fax nel 2016), e prosegue pubblicando i romanzi I segnalati (Fazi, 2013), Tabù (Tunué, 2017) e Necropolis (Chiarelettere, 2019). Fino a qui tutto bene e tutto “nella norma”, verrebbe da dire, perché parliamo di uno degli scrittori più interessanti del panorama della letteratura italiana contemporanea che pubblica romanzi e racconti in collane di narrativa letteraria ma allo stesso tempo “di confine”, che lasceranno un segno nell’editoria indipendente degli ultimi vent’anni. Tedoldi però, già nel 2012, decide di intraprendere anche la strada dell’autopubblicazione, e lo fa con il romanzo Deep Lipsia – la storia di un gruppo di neonazisti con uno dei finali più belli e stranianti della nostra letteratura recente – scritto (parole dell’autore), “seguendo un unico dogma: i personaggi non devono pensare”. Deep Lipsia verrà poi inserito anche nella seconda opera autopubblicata da Tedoldi, Decomposizione della letteratura, una raccolta di testi narrativi di diversa lunghezza che l’autore decide di far uscire autonomamente nel 2021, già due anni dopo l’ultima sua precedente pubblicazione con Chiarelettere.

 

E così arriviamo al 2023, l’anno di Phallus Dei. È un percorso, quello di Tedoldi, che, come già accennato, fotografa bene la storia recente dell’editoria indipendente italiana. Dal 2006 infatti molte cose sono cambiate: la collana Romanzi di Tunué e Altrove di Chiarelettere hanno chiuso i battenti, e minimum fax non è più la casa editrice di riferimento per chi cerca una narrativa nuova e in qualche modo di rottura.

 

Tornando però a Phallus Dei, anche nel caso della prima edizione di questo romanzo bisogna parlare di autopubblicazione. Giordano Tedoldi dichiara di non avere, almeno in un primo momento, trovato editori interessati a questa opera e ha quindi inizialmente pubblicato in autonomia il testo su Amazon, in versione digitale. È quantomeno curioso, ma forse sarebbe più giusto dire deprimente, che un romanzo letterario, diverso da tutto quello che si pubblica oggi, con un’attenzione particolare alla lingua e alla struttura, faccia fatica a trovare spazio in un settore in cui la letterarietà, la diversità e il lavoro su prosa e costruzione dovrebbero rappresentare un valore.

 

Phallus Dei racconta la storia di Sodal Sodal, vice-addetto alla pulizia dei bagni dell’azienda Axum, che un giorno viene invitato dall’amministratore delegato della società, Durkheim, a pranzare in un ristorante di lusso. Durante il pranzo, Durkheim mostra una fotografia compromettente che il diretto superiore di Sodal avrebbe inviato a una collega, una fotografia del suo sesso. Da questo momento in poi Durkheim si dimostrerà ossessionato dalle dimensioni dei genitali altrui e offrirà a Sodal la possibilità di scalare velocemente le gerarchie della Axum proprio in virtù delle dimensioni ragguardevoli del suo membro. Una premessa narrativa di questo tipo permette a Tedoldi di costruire un universo letterario in cui ogni svolta è contemplata e possibile, e in cui fortunatamente niente ha bisogno di essere davvero spiegato, neanche il fatto che la moglie del protagonista, Miranda, sia in grado di piegare i cucchiai con la forza del pensiero.

 

Quello che maggiormente sorprende di Phallus Dei è la sua capacità di vivere di contrasti e di muoversi in una sorta di zona di confine. Resta sospeso tra i generi senza mai diventare un testo di genere, è allo stesso tempo divertente e amarissimo, pieno di trovate e di personaggi memorabili, è disturbante fino al disgusto eppure difficile da mollare e viene portato avanti con un rigore formale anche nel suo diventare a poco a poco un testo eterogeneo per stile e contenuti. Il modo in cui Tedoldi usa la lingua e costruisce l’architettura di Phallus Dei è ovviamente, evidentemente, quello di uno scrittore con una visione, un immaginario e un approccio al testo unici, e questo approccio fa del romanzo un’opera simile a pochissime altre e, anche per questo motivo, preziosa.

 

Dispiace che Phallus Dei abbia fatto fatica a trovare spazio, e dispiace tanto per i lettori quanto, e forse ancora di più, per gli editori (grandi, medi e piccoli) che stavano per lasciarsi scappare uno dei romanzi migliori dell’anno. Stavano, appunto, perché oggi Phallus Dei un editore l’ha finalmente trovato: sarà Corrimano Edizioni a portare l’ultimo romanzo di Giordano Tedoldi in libreria. È importante che un testo così arrivi ai lettori e che se ne parli, perché marca la distanza tra quello che in Italia oggi viene proposto e arriva sugli scaffali e chi invece prova, in questo caso riuscendoci, a fare letteratura. Distanza che sembra aumentare sempre di più e che invece grazie a testi come questo sarebbe possibile, almeno ogni tanto, chiudere. La speranza è che la funzione di Phallus Dei non sia soltanto quella di arricchire un catalogo con un nome di prestigio, e che l’editore che si è preso carico di questa opera importante faccia quello che è nelle sue possibilità per dare il giusto peso a un’uscita che meriterebbe di far parlare di sé più di quanto fino a oggi sia riuscita a fare.

"Adelaida" di Adrián N. Bravi - recensione di Sergio Oricci

Adelaida, di Adrián N. Bravi (Nutrimenti, 2024)

Adrián N. Bravi, nato in Argentina, a Buenos Aires, nel 1963, pubblica romanzi (e non solo) in lingua italiana dal 2004, anno in cui ha esordito con Restituiscimi il cappotto, pubblicato da Fernandel. Altri suoi libri sono poi usciti con Nottetempo, Feltrinelli, Quodlibet. La sua opera più recente, Adelaida, pubblicata da Nutrimenti, è un testo biografico che racconta di una figura importante e ancora poco ricordata, quella di Adelaida Gigli, artista, ceramista e intellettuale nata a Recanati nel 1927 e fondatrice nel 1953 della rivista Contorno, con sede a Buenos Aires.

Già nel 2019 Adrián N. Bravi, su Left, scriveva di Adelaida Gigli, testimonianza di quanto l’autore tenesse a raccontare la storia di questa donna che ha conosciuto durante il periodo in cui viveva a Buenos Aires e che ha poi continuato a frequentare fino al momento della di lei morte, avvenuta a Recanati nel 2010. Di recente Bravi ha dichiarato che se non avesse scritto Adelaida, se non avesse raccontato la storia di Adelaida Gigli, forse nessun altro l’avrebbe fatto. Questo avrebbe significato non poter tenere traccia non solo della vicenda di una donna rappresentativa di una dimensione sempre meno presente oggi, in cui cultura, attivismo politico e arte si intrecciano per motivi profondi e non per questioni di posizionamento, ma anche di una parte significativa del Novecento.

Dunque era questo l’intento di Bravi, raccontarci di Adelaida e mantenerne viva la memoria. Il libro mantiene la promessa, e il ritratto che viene realizzato di Adelaida Gigli è intenso ma pervaso da una certa dolcezza. Anche se le pagine attraverso le quali la vicenda si snoda a tratti diventano un elenco di eventi messi in sequenza, non mancano passaggi in cui la narrazione diventa più personale e in cui il respiro della storia si contrae e si espande per mettere a fuoco ora Adelaida ora il contesto più ampio nel quale si muoveva.

Adelaida è stato recentemente incluso nella selezione dell’edizione 2024 del Premio Strega e, pur non essendo l’unico libro della dozzina pubblicato da una casa editrice indipendente (oltre ad Adelaida trovano spazio, per esempio, Autobiogrammatica di Tommaso Giartosio, pubblicato da minimum fax, e Chi dice e chi tace, di Chiara Valerio, per Sellerio, tecnicamente considerata una indipendente), è l’unico libro pubblicato da una piccola casa editrice, con tutto quello che comporta in termini di limiti di distribuzione e di possibilità di diffusione. È una buona notizia che un libro di un piccolo editore possa godere della cassa di risonanza di un premio che oggi ha nell’essere una cassa di risonanza la sua unica funzione. Ma la piccola editoria potrebbe rappresentare uno spazio in cui cercare una narrativa fatta di ricerca linguistica, strutturale e concettuale, e in questo caso si è scelto invece di prendere da quello spazio un testo biografico abbastanza canonico, che ha il suo punto di forza in quello che racconta e non nelle modalità formali attraverso cui le vicende vengono organizzate.

Il maggiore peso del “cosa” rispetto a quello del “come”, delle tematiche rispetto alla lingua, delle storie rispetto allo stile è una questione che non riguarda solo Adelaida, ma l’intero panorama della letteratura contemporanea italiana, o almeno di quella che riesce a farsi vedere sugli scaffali, nelle vetrine, nei grandi premi e a raggiungere quindi a un pubblico di lettori più ampio.

Adelaida però, al di là dei suoi limiti strutturali, ci permette di conoscere o di approfondire la vicenda personale, artistica e politica di Adelaida Gigli, una donna che ha lasciato un segno nei luoghi e nel tempo che ha abitato, grazie alle sue scelte, alla sua capacità di sfidare le convenzioni e a una visione personale che viene fuori potente quando Bravi “sparisce” e lascia spazio alle parole dell’artista, che in questo stralcio racconta così di aver capito di voler lavorare la ceramica:

«Voglio produrre qualcosa che non bruci, dunque né romanzi falliti né poesie inedite né articoli perduti e nemmeno racconti abbozzati. Voglio qualcosa che occupi un posto e possa esprimere, con un colpo d’occhio, il dolore».

Adelaida è un testo compiuto e quasi sempre misurato, nonostante qualche passaggio in cui senso di nostalgia e sentimentalismo prevalgono sulla lingua. Sul fatto che sia un romanzo, o che non lo sia, si potrebbe invece certamente discutere. L’autore, nel cercare la giusta misura tra il suo personale coinvolgimento, una volontà di celebrazione non banale e la necessità di raccontare un importante pezzo del Novecento, finisce per comprimere in 144 pagine un numero eccessivo di eventi, di situazioni, di suggestioni, di aneddoti. L’esperienza di lettura che ne risulta è dunque altalenante, e si resta con la sensazione che alcuni momenti avrebbero avuto bisogno di un maggiore approfondimento.

Quando si racconta la vita di qualcun altro, trovare il punto di equilibrio tra fare letteratura e raccontare una storia rispettando la memoria dei suoi protagonisti è un esercizio complesso e Adrián N. Bravi sceglie di raccontare e di muoversi tra esperienza privata e dimensione sociopolitica, stando sempre attento a non fare un passo di troppo. Rompere l’equilibrio, anche rischiando di cadere, sarebbe potuta essere una scelta più interessante.

"Noi siamo luce" di Gerda Blees - recensione di Sergio Oricci

Noi siamo luce, di Gerda Blees (Iperborea, 2022) – traduzione di Claudia Di Palermo

Noi siamo luce è il romanzo d’esordio di Gerda Blees, poetessa e scrittrice olandese classe 1985. Il libro, che nelle sue premesse trae ispirazione da una vicenda realmente accaduta, racconta la storia della piccola comune Suono e Amore e delle quattro persone che la abitano. La fondatrice della comunità è Melodie e insieme a lei ci sono Elisabeth, Muriël e Petrus. La filosofia alla base di Suono e Amore prevede una vita in cui la meditazione, la musica, la luce e l’aria che Elisabeth, Petrus, Muriël e Melodie respirano possano bastare per permettere loro di sopravvivere, anche senza bisogno di nutrirsi di altro. Ed è per questo che a Suono e Amore si pratica il processo dei nove giorni, un periodo durante il quale ci si sottrae completamente alla dipendenza dal cibo. Durante il percorso dei nove giorni uno dei membri della comunità, Elisabeth, muore, per motivi legati al suo stato di denutrizione. Ed è qui che il romanzo ha effettivamente inizio.

Gerda Blees sceglie una strada particolarmente difficile da percorrere, e in Noi siamo luce frammenta l’identità del narratore utilizzando una voce diversa per ognuno dei venticinque capitoli che compongono il romanzo. Venticinque narratori diversi, dunque, che si esprimono tutti attraverso la prima persona plurale: umani, animali, oggetti inanimati, passando per concetti astratti e finendo con la luce. È interessante citare alcuni dei narratori per dare un’idea di come Blees abbia concepito e deciso di mettere insieme la grande identità collettiva di questo romanzo; tra gli altri, troviamo la notte, i vicini, un odore di arancio, una farfalla, il corpo di Elisabeth, la resistenza emotiva, una penna, la luce.

L’uso di narratori atipici, in letteratura, si scontra con i limiti di una costruzione linguistica concepita da esseri umani che scrivono per farsi leggere da altri esseri umani, e finisce spesso per essere soltanto un espediente narrativo nell’accezione più negativa del termine (se mai ne possa esistere una positiva). Sono molti gli esempi anche recenti in cui al lettore viene da chiedersi per quale motivo un autore abbia scelto di far parlare un oggetto o un animale, se poi l’oggetto e l’animale non fanno altro che esprimersi e pensare come esseri umani. Nel caso di Noi siamo luce, alcuni capitoli sono certamente più riusciti di altri dal punto di vista delle modalità di espressione dei singoli narratori, ma la scelta che permette a Gerda Blees di non restare intrappolata in quello che rischiava di essere solo un “romanzo-espediente” è proprio la moltiplicazione e la frammentazione del Noi del titolo. Gerda Blees infatti libera una serie di voci che in fondo non sono altro che diversi angoli di una stessa grande identità collettiva, concetto che interagisce anche con l’ambientazione del romanzo (una comune) e con l’idea di un’umanità che, anche attraverso pratiche che possono essere considerate discutibili, prova a deviare dalla direzione evolutiva data per scontata e a tendere verso qualcos’altro.

Il meccanismo della ripetizione (tutti i capitoli iniziano con un programmatico “Noi siamo”) serve a sviluppare uno dei concetti chiave: noi siamo questo e quello, e per quanto possiamo sforzarci di cercare un’identità unica e indivisibile, compatta e immobile, il senso, se ne esiste uno, sta proprio nel non poterne individuare una e nello specchiarci in tutto ciò che, vivente o non vivente, ci circonda e ci abita.

Le singole voci differiscono per delle sfumature, per dei dettagli, ma a nessuna di esse l’autrice attribuisce peculiarità specifiche, né tic linguistici. Questa soluzione contribuisce ulteriormente ad allontanare i narratori multipli di Noi siamo luce dalla dimensione dell’espediente, rendendo ancora più chiaro l’approccio di Gerda Blees alla letteratura, un approccio di tipo artistico in cui è il progetto, l’idea, nel suo insieme a muovere voci e strutture, e in cui non c’è spazio per il trucco, per meccanismi che devono far funzionare il testo.

Gerda Blees, che ha a sua volta vissuto in una comune, oltre a essere una scrittrice di romanzi e di racconti è anche una poetessa e ha studiato arti visuali. La sua formazione e le diverse modalità attraverso le quali la sua scrittura si esprime hanno chiaramente influito sulla concezione non canonica di questo romanzo d’esordio, che nel 2021 si è aggiudicato il Premio dell’Unione Europea per la letteratura. Noi siamo luce è un romanzo che, come spesso succede ai libri di valore, può essere letto e interpretato in modi anche molto distanti. Racconta la storia di quattro persone che decidono di isolarsi e di portare avanti una possibilità di esistenza radicale che sarebbe facile guardare cadendo nella tentazione di formulare un giudizio, eppure lo fa attraverso una grande voce universale e attraverso la sua frammentazione, come a volerci suggerire che, anche all’interno di una piccola comunità con le sue regole e i suoi confini, dobbiamo costantemente fare i conti con la relazione, lo scambio, con quel Noi che ci parla e con cui parliamo anche quando vorremmo solo restare in silenzio a guardare la luce.

"Demolition Job" di Alfredo Zucchi - recensione di Sergio Oricci

Demolition Job – lettere all’usurpatore, di Alfredo Zucchi (Edicola Edizioni, 2023)

In Italia quando si parla di “scrittura di ricerca” spesso si fa riferimento a una deviazione della – e dalla – poesia contemporanea. Sintetizzando, e con il rischio di banalizzare, ci si riferisce a quelle prose di confine non assertive, di lunghezza, struttura e composizione variabili, che provano a spostare un po’ più in là il confine della lingua e il modo in cui i significanti si relazionano a un possibile, ma non necessario, significato.
Prendendo in prestito una categoria dell’arte visuale, scrittura di ricerca può essere un altro modo per chiamare una letteratura di tipo concettuale. L’enciclopedia Treccani definisce l’arte concettuale come “una forma d’arte (…) la cui ricerca si concentra prevalentemente sul momento della progettazione e dell’ideazione dell’opera e sull’analisi della comunicazione e del linguaggio dell’arte; attraverso l’esposizione di descrizioni di idee e progetti, diagrammi di opere possibili, formule matematiche, strutture prospettiche, esprime la protesta contro la diffusione e la mercificazione dell’oggetto d’arte, nel tentativo di liberarsi dalla sottomissione ai materiali.”, una definizione che, con qualche piccola modifica, sarebbe perfetta anche per la scrittura di ricerca.
E nel contesto della letteratura di ricerca si inserisce Alfredo Zucchi, scrittore e curatore di collana nato a Napoli nel 1983, fondatore della rivista Crapula Club (2008-2019), socio di Wojtek Edizioni e co-direttore della collana di saggistica letteraria Ostranenie. Demolition Job, la sua opera più recente, pubblicata nel 2023 da Edicola Edizioni, può essere infatti inserita, insieme a poche altre opere di letteratura italiana contemporanea, a pieno titolo nella categoria.
Demolition Job si presenta come una raccolta di cinque testi che si sviluppa nell’arco di una sessantina di pagine. Come un piccolo sistema in espansione, attorno al testo Resoconto sperimentale (che occupa più della metà delle pagine totali) gravitano altri quattro testi-satellite, ognuno con la propria massa e la propria orbita.
Resoconto Sperimentale, preceduto e succeduto da due testi e quindi posto non a caso al centro del sistema, racconta di un esperimento portato avanti su delle cavie umane. Un esperimento che riguarda il linguaggio, la rappresentazione, il desiderio, la morte. E anche, in una certa misura, le zone di continuità tra regno animale, vegetale e minerale.
Gli altri quattro testi invece spaziano tra riflessione teorica, forma racconto, annotazione e manifesto.
La questione concettuale, la ricerca, prende forma non solo grazie alla struttura del testo e al modo in cui i diversi pezzi si muovono senza mai toccarsi davvero o quantomeno senza comunicare in modo ovvio – come in una video-installazione a canali in cui il discorso viene sviluppato su un certo numero di schermi separati, in questo caso cinque, e che costringe l’osservatore a muoversi e a spostare lo sguardo per provare a cogliere almeno qualcosa di ognuna delle parti – ma anche attraverso indizi e possibili chiavi di lettura disseminati sia nel racconto centrale che nei suoi satelliti.
“Io mi occupo della parola (…) Mi occupo del suo limite (…) Questo limite è plastico e mobile – ma non sono io a smuoverlo: si muove.”
Da “Resoconto sperimentale”
“C’è un solo modo di leggere questa lettera: alla lettera.”

Da “Lettera all’usurpatore”
“Ma noi dobbiamo insistere scendendo, manipolare lo spazio intorno alle fondazioni.”
Da “Lettera all’usurpatore”

Alfredo Zucchi, già autore di romanzi (La bomba voyeur, Rogas Edizioni, 2018), raccolte di racconti (La memoria dell’uguale, Polidoro, 2020) e testi di non-fiction (Una possibilità del linguaggio. Pierre Menard come metodo, Mucchi, 2021), con Demolition Job continua dunque a occuparsi della parola e del suo limite. Un limite, come lui stesso scrive, plastico e mobile e del cui movimento Zucchi sembra voler essere prima testimone e soltanto poi attore. Demolition Job, lettere all’usurpatore è certamente un oggetto letterario in cui oggi in Italia è raro imbattersi. È facile capire cosa non sia: non si tratta di un romanzo, né di una raccolta di racconti, e non è un testo di saggistica o una silloge in poesia. Vive in una zona di confine in cui queste forme, e ancora altre, ora si sfiorano ora si compenetrano, e lo fa senza diventare un testo difficile. Demolition Job è infatti un’opera sicuramente complessa, e misteriosa nella sua capacità di creare una sorta di dimensione altra in poche pagine, ma che sembra chiedere al lettore di entrare nella sua architettura portando con sé solo la curiosità di scoprire cosa ci sarà al di là della prima porta e del corridoio, oltre la grande stanza, e di oltrepassare l’uscita sul retro per ritrovarsi in uno dei possibili giardini. E una volta fuori, di riflettere un attimo su quali siano davvero le possibilità del linguaggio, le possibilità della letteratura italiana oggi.

"Il passeggero" e "Stella Maris" di Cormac McCarthy - recensione di Sergio Oricci

Il passeggero (Einaudi, 2023) e Stella Maris (Einaudi, 2023), di Cormac McCarthy, traduzioni di Maurizia Balmelli

Cormac McCarthy (1933-2023) è stato uno dei principali interpreti della letteratura americana e della letteratura contemporanea in senso generale. Tra le sue numerose opere è bene ricordare Meridiano di sangue (Einaudi, 1996), La trilogia della frontiera(un’edizione che comprende i tre romanzi è uscita per Einaudi nel 2008), Non è un paese per vecchi (Einaudi, 2006) e La strada (Einaudi, 2007, opera vincitrice del premio Pulitzer nello stesso anno).

I suoi due ultimi libri, Il passeggero e Stella Maris, vanno considerati come un’unica grande opera e rappresentano una linea di demarcazione tra quello che c’è stato prima e quello che da ora in avanti sarà o proverà a essere la letteratura americana contemporanea. Il passeggero e Stella Maris sono i due poli opposti e complementari della visione della letteratura di McCarthy: da una parte, nel Passeggero, abbiamo una struttura che procede alternando due linee narrative, con unità di spazio e di tempo articolate, mentre dall’altra, in Stella Maris, la narrazione procede in modo lineare e si sviluppa in una singola unità di spazio (una stanza), di tempo (non più qualche ora) e di modalità (un dialogo senza interruzioni, o meglio un monologo mascherato da dialogo).

Il passeggero racconta la storia di Bobby Western, sommozzatore che in apertura di romanzo troviamo sott’acqua impegnato a controllare un velivolo, finito lì dopo un incidente, a cui è stata sottratta la scatola nera, e quella di Alicia, sorella di Bobby morta suicida già anni prima dell’inizio delle vicende raccontate nella linea narrativa dedicata a Bobby, che troviamo nei capitoli a lei dedicati in preda a uno stato di allucinazione permanente, durante il quale dialoga con uno strano personaggio focomelico di nome Talidomide Kid (dal farmaco colpevole di tanti casi di focomelia negli anni ‘50 e ‘60).

La storia di Bobby si sviluppa attraverso continui cambi di ritmo e mettendo in sequenza una serie di complessità che sta al lettore risolvere, e che trova il suo apice in un lungo dialogo sulla fisica quantistica – Bobby è il figlio di uno degli scienziati coinvolti nel progetto Manhattan – che spacca il libro a metà e che da solo riuscirebbe a rendere Il passeggero un’esperienza di lettura misteriosa e convincente. Misteriosa perché nel romanzo Il passeggero non tutto viene spiegato e la fuga di Bobby, che scappa per non farsi trovare dagli emissari governativi che lo cercano per indagare sulla scomparsa della scatola nera e su quello che è successo al velivolo che si è inabissato al largo del Golfo del Messico, prende presto la forma di una fuga esistenziale e di un viaggio nelle profondità della psicologia del protagonista.

La storia di Alicia invece vive sulla ripetizione delle sue visioni fumettistiche, e il modo in cui McCarthy tratteggia la malattia mentale, e in particolare la schizofrenia, dà a tratti l’impressione di essere una cartolina letteraria, una semplificazione. Ma la mancanza di equilibrio tra le due parti e il procedere per accumulo di un testo non perfetto ma vivo non tolgono poi molto al valore letterario di un’opera che impressiona per energia e che, anche quando sbanda, lo fa per inseguire una grande ambizione.

Se Il passeggero è un romanzo autonomo e che sta perfettamente in piedi da solo, lo stesso non si può dire di Stella Maris. È più corretto in questo caso parlare di una lunga nota a margine del Passeggero, di un approfondimento che McCarthy ha voluto dedicare al personaggio di Alicia. Stella Maris è infatti, dalla prima all’ultima pagina, un dialogo tra Alicia e uno psichiatra della struttura Stella Maris dove la donna è ricoverata. Se nel Passeggero avevamo conosciuto una Alicia in preda alle visioni, qui la conosciamo in uno stato di perfetto controllo, e la troviamo discorrere di matematica, del suo rapporto ai limiti dell’incestuoso con il fratello Bobby e di massimi sistemi con uno psichiatra che è lì solo perché deve esserci, ma che di fatto è un personaggio irrilevante, nel suo rispondere per lo più con brevi frasi e nella sua quasi totale trasparenza. Preso da solo, Stella Maris è un romanzo non memorabile, e l’idea di pubblicarlo come testo separato dal Passeggero non lo aiuta. Se consideriamo i due libri come un’unica grande opera, ecco invece che Stella Maris trova una sua funzione e un suo senso, pur con i limiti rappresentati dalla costruzione di un dialogo che dovrebbe essere complesso nei contenuti ma finisce per essere limitato da un eccessivo gusto per la frase e per le tematiche, e dal suo sviluppo che, in sostanza, è quello di un monologo a causa dell’assenza di un vero interlocutore.
Come parte di qualcosa di più grande, però, Stella Maris rappresenta un ulteriore comparto strutturale e un altro cambio di ritmo che dà al dittico di romanzi nel suo insieme una natura composita che finisce per valorizzarlo.

Il passeggero e Stella Maris hanno un peso e una gravità che solo i grandi autori riescono a generare, e riescono a lasciare in chi legge la sensazione di aver assistito a qualcosa di definitivo, di assoluto eppure ancora in movimento anche dopo l’ultima pagina. E proprio questa sensazione di sospensione nel tempo è forse il senso di un’opera destinata a continuare a espandersi e a lasciare dietro di sé una scia, anche dopo la scomparsa di chi l’ha scritta.

“L’altro nome. Settologia I-II” e “Io è un altro. Settologia III-V” di JON FOSSE - recensione di Sergio Oricci

L’altro nome. Settologia I-II” (La Nave di Teseo, 2021) e “Io è un altro. Settologia III-V” (La Nave di Teseo, 2023) – traduzioni di Margherita Podestà Heir

È il 2006 quando Jon Fosse, scrittore e drammaturgo norvegese classe 1959, viene portato per la prima volta in Italia dalla casa editrice Editoria & Spettacolo che pubblica una raccolta di sei drammi intitolata Teatro. Quindici anni più tardi e dopo diversi altri libri pubblicati in Italia da Fandango, Titivillus e Cue Press, La Nave di Teseo porta in Italia l’opera narrativa più importante dell’autore, la “Settologia”. Poco prima dell’uscita in Italia del secondo volume di questa opera in sette parti, divise in tre libri, Jon Fosse riceve il Premio Nobel per la letteratura (2023).

Non è facile parlare di una Settologia che in Italia è ancora in corso di pubblicazione, perché l’opera di Fosse è un corpo in cui le singole parti interagiscono per dare forma a un lungo discorso che riguarda prima di tutto la lingua, e soltanto dopo i grandi temi del doppio (o meglio del multiplo), della fede, della morte, dell’arte e della dispersione di un’identità che dalla sua dimensione individuale (fortemente occidentale) si muove perdendo pezzi (e lasciando tracce) nello spazio e nel tempo.

Il protagonista della Settologia è Asle, un pittore che trascorre le giornate guardando un punto all’estremità di un fiordo e spostandosi tra il paesino in cui vive e la città dove ogni anno, nella galleria d’arte del gallerista Beyer, viene allestita una sua mostra personale. Nel muoverci insieme ad Asle incontriamo un altro Asle, anche lui artista, che vive con il suo cane Brage, si addormenta spesso ubriaco e si sveglia scosso dai tremori. La prosa di Fosse si snoda attraverso le oltre 350 pagine del primo volume, e così continuerà a fare per l’intera Settologia, senza mai utilizzare il punto fermo. Questa scelta, più di concetto che di sintassi, lascia al lettore la responsabilità di trovare un momento in cui fermarsi, oppure di scegliere di non farlo mai. Asle e Asle sono uno “L’altro nome” dell’altro, e Fosse sceglie di alternare continuamente prima e terza persona all’interno dello stesso periodo, dando vita a un viaggio fatto di piccoli e grandi spostamenti che costringono chi legge a cercare una strada, un orientamento, una chiave interpretativa, e a fare i conti con un altro sé e allo stesso tempo con altro da sé.

È proprio il sistema linguistico creato da Fosse l’elemento di maggiore interesse della Settologia. Si tratta infatti di una lingua nuova, una lingua che risuona e che si moltiplica proprio come i personaggi che racconta. Nella Settologia la corrispondenza tra il cosa viene raccontato e il come viene fatto è fortissima, e se da una parte sono le identità a moltiplicarsi, dall’altra le continue ripetizioni linguistiche e di contenuto non fanno che evidenziare e amplificare la portata del discorso. La prosa di Jon Fosse è ricorsiva e si appoggia sul tempo come una preghiera.

In parte è per questo motivo che quando ci troviamo a iniziare la lettura di “Io è un altro”, secondo volume della Settologia, l’impressione è che il meccanismo sia già chiaro, che il mistero di questa lingua da cui è difficile estrapolare un frammento da citare – perché l’opera stessa è in fondo un’unica lunghissima frase che deve restare tale, una e indivisa – sia già stato svelato. In “Io è un altro” l’alternanza tra prima (Asle adulto) e terza persona (Asle adolescente) si fa più regolare, e le riflessioni sulla fede e sulla morte, seppure ancora presenti e con momenti, come sul finale, di chiara intensità, sono più rarefatte. La scelta di Fosse di fornire al lettore una visione più ampia del background dei personaggi e di dare un maggior numero di informazioni nei tre capitoli centrali della Settologia è comunque interessante, perché se da una parte il secondo volume risulta privo del mistero quasi sovrannaturale che pervade “L’altro nome”, dall’altra sviluppa il potenziale narrativo della storia: accompagniamo dunque Asle durante una delle sue prime mostre, scopriamo come avviene il primo incontro tra lui e quello che diventerà il suo gallerista, Beyer, e intravediamo anche un giovane “Omonimo”, l’altro Asle, che esiste oggi ed esisteva ieri, e la cui identità è altra ma sfuma in quella del protagonista, adulto o adolescente che sia.

La motivazione per il Premio Nobel assegnato a Jon Fosse nel 2023 recita: “Per la sua drammaturgia e la sua prosa innovative, che danno voce all’indicibile”.

In attesa del terzo volume, e della conclusione di un’opera di cui oggi si fa fatica anche soltanto a immaginare una fine, quello di cui possiamo già essere certi è che La Settologia si muove nel territorio della complessità, dove – più che all’indicibile – la letteratura dà, finalmente, voce a sé stessa.

SERGIO ORICCI

Sergio Oricci (Fiesole, 1982) vive a Cluj-Napoca, in Romania. Suoi articoli e racconti sono apparsi su riviste (‘tina, Altri Animali, Neutopia). Ha pubblicato la raccolta in poesia Pesci di vetro (Gattomerlino, 2020), la raccolta di racconti Volevo essere Vincent Gallo (Pidgin Edizioni, 2021) e i romanzi Cereali al neon (Effequ, 2018) e La casa viola (Castelvecchi, 2022). Ha fondato e cura la rivista Clean.

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